Quando si tratta di stabilire se un coniuge possa o meno mantenere l’altro dopo la separazione o il divorzio, il giudice è tenuto a valutare le prove offerte, durante il processo, dall’ex che chiede l’assegno; ma, se le ritiene insufficienti per farsi un’idea concreta, potrebbe delegare delle ulteriori indagini alla polizia tributaria. Non è, però, tenuto a farlo e, anzi, ben potrebbe emettere la sentenza sulla base del materiale probatorio in atti. Lo ha chiarito una recente sentenza della Cassazione che ha precisato come, tutte le volte in cui il giudice del merito ritenga già provata l’insussistenza di redditi da parte del coniuge obbligato, può direttamente procedere al rigetto della domanda di mantenimento, anche senza avere prima disposto accertamenti d’ufficio attraverso la polizia tributaria. Infatti, tali accertamenti non possono avere una valenza esplorativa, non possono, cioè, sostituire quello che è un onere tipico delle parti: quello della raccolta delle prove ai fini della decisione. La dimostrazione dei propri diritti spetta ai soggetti coinvolti nella causa e non può essere delegata agli ausiliari del giudice. La polizia tributaria potrebbe allora fungere da sola integrazione tutte le volte in cui la parte richiedente non sia riuscita, per proprie impossibilità, a procurarsi la prova dei propri “sospetti” sui redditi dell’ex.   Dunque, il conferimento dell’incarico alla polizia tributaria rientra nella discrezionalità del giudice; non si tratta di un adempimento obbligatorio, imposto a semplice istanza di parte. È necessario comunque che il giudice abbia valutato come superflua tale indagine, per via dei dati istruttori già acquisiti e ritenuti sufficienti all’emissione della sentenza.